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Per Aspera ad Veritatem N.17 maggio-agosto 2000
Numero speciale
dedicato all'Unità d'Italia
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Sergio ROMANO
Crisi internazionali e sicurezza interna


Possiamo dire che la fine della Guerra Fredda ha, di fatto, rappresentato la fine della Grande Guerra Mondiale. Molti non si sono resi conto che fra l'ottobre del 1989 e il dicembre del 1991 stava finendo la Terza Guerra Mondiale, ossia una guerra combattuta nel corso del ventesimo secolo ma diversa, anomala rispetto alle precedenti; una guerra che in Europa è stata combattuta con le armi della propaganda, dell'embargo economico e dell'eversione ideologica, risultando nel nostro continente la meno cruenta delle guerre del secolo, combattute invece con le armi in altri Paesi.
La guerra è finita. Anche se non sappiamo esattamente per quale motivo e quando una guerra termina si sa in genere chi ha vinto e chi ha perduto. In questo caso è molto più difficile conoscere le ragioni per cui l'Unione Sovietica è stata sconfitta; qualcuno sostiene che l'elezione di un Papa polacco sia stato un fattore determinante nel corso degli anni ottanta; qualcun altro osserva che il brusco calo del prezzo del petrolio nel momento in cui Gorbaciov stava cercando di realizzare le sue riforme ha provocato il fallimento del suo progetto riformatore; altri ancora fanno riferimento ai disastri economici che il sistema sovietico aveva provocato e nascosto agli occhi dell'opinione pubblica mondiale nei decenni precedenti.
Essendo finita in un modo tanto anomalo, nessuno è stato in grado di capire esattamente che cosa sarebbe accaduto negli anni seguenti. Ci si è quindi trovati costretti a gestire politicamente una situazione non prevista e di cui non era possibile calcolare gli sviluppi. Abbiamo assistito ad una serie di crisi che si sono verificate alla fine della guerra fredda a cui noi occidentali eravamo completamente impreparati. Basti pensare un istante a ciò che è accaduto in Africa. In Africa la Guerra Fredda aveva stabilizzato alcuni regimi decolonizzati in quanto entrambi i blocchi avevano un evidente interesse a procurarsi alleati, clienti e satelliti. Tale esigenza politica ha in un certo senso garantito la stabilità del continente africano, pur fra guerre civili e colpi di Stato, in quanto i due blocchi fornivano a regimi instabili il sostegno economico necessario per mantenere il potere, finanziando leader tribali, veri e propri capi "patrimoniali" dello stato africano di cui erano presidenti.
Nel momento in cui la Guerra Fredda è terminata nessuno ha avuto più interesse a pagare clienti e satelliti nel continente africano. Abbiamo quindi assistito ad una serie di crisi che sono l'evidente risultato della fine della Guerra Fredda, a cominciare dalla crisi del Corno d'Africa dove il regime filo-sovietico di Menghistu cade per l'appunto fra il 1989 e il 1991.
Ma come non ricordare la situazione somala, la questione eritrea, per non parlare della Sierra Leone e della Liberia, paesi che sono praticamente scomparsi dalla carta geografica. I massacri del Ruanda, la guerra del Congo, la prima guerra mondiale africana in cui sono state coinvolte sette potenze, sono tutti eventi che testimoniano il minore interesse delle grandi potenze per le vicende del continente africano.
Un'altra area in cui la fine della Guerra Fredda ha avuto delle conseguenze per molti aspetti disastrose è il Medio Oriente. Per la verità, la fine della Guerra Fredda ha anche favorito ciò che prima era considerato impossibile, vale a dire un accordo fra Israele e i Paesi Arabi. Tuttavia ha provocato la guerra del Golfo. Infatti, fra il 1980 e il 1988, l'Iraq ha fronteggiato l'Iran in uno dei conflitti più sanguinosi che siano mai stati combattuti nel corso di questo secolo. Questa guerra l'Iraq l'ha condotta con l'implicito beneplacito e la recondita benedizione dei due blocchi. Sia l'Occidente che l'Unione Sovietica infatti erano interessati a che l'Iraq impegnasse l'Iran teocratico degli ayatollah e gli rendesse la vita difficile. Da più parti si è sostenuto che Saddam Hussein non ha combattuto questa guerra per i propri interessi e ambizioni nazionali, bensì per le convenienze dei due maggiori blocchi. Adottando questo punto di vista, risulta quindi inevitabile aspettarsi che, alla fine della Guerra Fredda, quando la situazione era divenuta meno conflittuale, Saddam Hussein avrebbe cercato la ricompensa per i servigi offerti e i sacrifici sofferti nel corso degli otto anni precedenti. In tale quadro rientrerebbe il desiderio di annettere il Kuwait, un'ambizione che l'Iraq nutriva già da tempo e di cui le potenze occidentali erano perfettamente consapevoli. Saddam Hussein non ha tuttavia calcolato che l'annessione brutale e violenta di un piccolo Stato avrebbe preoccupato e infastidito l'ordine internazionale, inducendo nelle grandi potenze una sensazione di incipiente anarchia. Si è creata quindi una coalizione contro Saddam Hussein che lo ha sconfitto secondo modi e forme anch'esse tipiche del diverso modo in cui si è iniziato a combattere dopo la fine della Guerra Fredda.
Attualmente infatti l'Occidente combatte quando si ritiene in condizioni di doverlo fare, ma in situazioni completamente diverse da quelle per cui aveva combattuto negli anni precedenti. Basti pensare, ad esempio, ai massacri del Vietnam o della Corea. Oggi l'opinione pubblica non tollera che la vita dei cittadini sia messa a rischio per nessuna ragione.
Quindi, si combatte se si è obbligati a farlo, ma con armi tali da rendere minimo il rischio di vita per i combattenti. Ecco dunque un largo uso di armi tecnologicamente sofisticate, il ricorso in via prevalente, se non esclusiva, ad interventi aerei piuttosto che terrestri e, soprattutto, la scelta di non combattere fino alle estreme conseguenze. Militarmente l'Iraq avrebbe potuto essere conquistato e non lo è stato solo per una serie di considerazioni in cui ha giocato anche e soprattutto il timore che una lunga guerra combattuta sul territorio iracheno avrebbe comportato dei rischi che l'opinione pubblica americana non avrebbe mai tollerato e che avrebbero certamente penalizzato e indebolito il Presidente. Da questa guerra del Golfo è quindi emersa una sorta di crisi permanente determinata dall'esistenza di uno stato come l'Iraq, sconfitto ma non totalmente, contro cui sono state utilizzate, spesso con mediocri successi, le armi dell'embargo economico.
Dopo la fine della Guerra Fredda si combatte, quindi, ma non si muore, o, quanto meno, questa è la divisa dell'Occidente; per gli altri la situazione è alquanto diversa.
Un'altra area del mondo dove la fine della Guerra Fredda ha avuto tutta una serie di conseguenze, alcune positive, altre negative, è il subcontinente indiano. Questo era composto da due Stati, l'India e il Pakistan, che si erano scelti ciascuno un protettore in uno dei due blocchi. L'India aveva un rapporto privilegiato con l'Unione Sovietica, suo principale partner economico e suo principale fornitore di beni strumentali e di armi, mentre il Pakistan godeva dell'appoggio degli Stati Uniti.
Terminata la Guerra Fredda, l'India ha perduto con la fine dell'Unione Sovietica il suo partner privilegiato, il suo tutore, il suo fornitore di beni strumentali e di armi nonché l'interfaccia della sua economia che, per molti anni, era stata impostata secondo principi d'ispirazione socialista, dirigista e programmata. Il grande paese asiatico ha dovuto inventarsi una nuova economia a partire dal 1991-1992. Abbiamo quindi assistito ad una profonda trasformazione e, grazie soprattutto a un governo coraggioso e lungimirante, l'India ha cominciato a crescere economicamente mediamente del 6% ogni anno.
In questo caso si tratta sicuramente di una ricaduta positiva della fine della Guerra Fredda. La morte dell'Unione Sovietica ha infatti costretto l'India a fare ciò che nessun governo precedentemente aveva osato, ossia avviare una certa deregolamentazione e liberalizzazione dell'economia. Accanto a ciò si sono tuttavia registrate anche conseguenze negative: l'India non è più protetta da nessuno, non c'è più nessuno disposto a firmare con l'India - un miliardo di abitanti - un trattato di alleanza con cui garantisce a questo Paese la protezione, ad esempio, dalla minaccia cinese, un'altra realtà del subcontinente indiano. E allora l'India ha dovuto provvedere in proprio e se l'India oggi è un Paese nucleare lo si deve anche in gran parte alla fine della Guerra Fredda. Naturalmente il Pakistan, considerato anche il rapporto conflittuale esistente con l'India, ha a sua volta seguito la stessa strada.
Il risultato è che dopo la fine della Guerra Fredda, avvenimento che noi tutti abbiamo salutato come una delle più positive vicende degli ultimi anni, in quella regione dell'Asia vi sono quattro potenze nucleari: la Russia, la Cina, l'India e il Pakistan; mai in quella regione vi è stata una così forte concentrazione di potenziale bellico e distruttivo.
Naturalmente le conseguenze più importanti e radicali della fine della Guerra Fredda riguardano il blocco perdente, vale a dire quello dell'Unione Sovietica. In quest'ambito occorre operare una distinzione tra i Paesi in base alla loro omogeneità sotto il profilo nazional-religioso.
I Paesi omogenei, come per esempio la Polonia e l'Ungheria, hanno immediatamente, o quanto meno rapidamente, ritrovato un certo equilibrio politico ed economico, recuperando nella loro tradizione l'economia di mercato e la democrazia, sia pure imperfetta, che le aveva caratterizzate negli anni precedenti l'occupazione sovietica, e si sono messi sulla strada giusta di un ricongiungimento con l'Europa centro-occidentale, che peraltro si è parzialmente realizzato attraverso l'ingresso nell'Alleanza Atlantica e che dovrà completarsi attraverso il loro ingresso nell'Unione Europea.
Ben altro è stato il destino dei Paesi caratterizzati da un forte tasso di multinazionalità e multietnicità.
L'Unione Sovietica, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, quest'ultima sia pure in modo indolore, si sono letteralmente dissolti, disintegrati e sono scomparsi dalla carta geografica. Ciò è avvenuto in alcuni casi in modo relativamente pacifico, come ad esempio per l'Unione Sovietica, sebbene vi siano state alcune guerre di successione, in altri, come nel caso della Jugoslavia, in modo particolarmente tragico e cruento.

Sappiamo che cosa è accaduto in Jugoslavia. Nel corso degli anni '90, si sono combattute nella ex Jugoslavia tre guerre: la guerra di Croazia, la guerra di Bosnia e la guerra del Kosovo e anche questo è un risultato della fine della Guerra Fredda.
Qual è stato di fronte a questi avvenimenti l'atteggiamento dell'Europa e degli Stati Uniti? Quando avvenimenti di tale portata si producono nel mondo, uno stato democratico è inevitabilmente diviso tra due reazioni di segno opposto. Da un lato la prima reazione, a mio avviso la più giusta e corretta, è quella di favorire per quanto possibile la conservazione degli Stati esistenti. L'orientamento è quindi quello di evitare la disintegrazione degli Stati perché questa costituisce sempre un rischio internazionale e comporta conseguenze incalcolabili. Tuttavia uno Stato democratico, soprattutto quando è soggetto agli umori della pubblica opinione e quando assiste ogni sera al conflitto, che entra nelle case attraverso lo schermo della televisione, è portato anche ad assumere un atteggiamento diverso, che tiene in maggior conto il rispetto dei diritti umani e che condanna chiunque sembri violarli.
L'Occidente ha avuto entrambe le reazioni, in modo diverso e cronologicamente sequenziale. In un primo momento la reazione è stata quella di sperare che l'Unione Sovietica e la Jugoslavia non si sarebbero dissolte. Ricordo che Bush andò a Kiev nel luglio del 1991 ed esortò gli Ucraini a starsene tranquilli all'interno dell'Unione Sovietica. Era evidente che il Presidente degli Stati Uniti in quel momento annetteva maggiore importanza all'integrità territoriale dell'Unione Sovietica di quanto non ne annettesse al principio della libera determinazione dei popoli e della libera democrazia. Questo fu l'atteggiamento di Bush.
L'Occidente europeo ha assunto nei rapporti della Jugoslavia esattamente lo stesso atteggiamento. I primi due mediatori, soprattutto Lord Kerrington, si adoperarono nei primi mesi della crisi per evitare che la Jugoslavia si disintegrasse. In quel periodo si è operato molto per cercare di ricucire il rapporto tra le Repubbliche, sia pure su base diversa. A partire dal ‘93-'94 l'atteggiamento dell'Occidente è profondamente cambiato sia nei confronti della Jugoslavia che nei confronti dell'Unione Sovietica.
Si è cominciato a privilegiare la libera determinazione dei popoli, il rispetto dei diritti umani e la democrazia nel confronto con il valore fondamentale dell'integrità degli Stati originali. Ciò è dovuto ad un serie di circostanze. Per quanto concerne gli Stati Uniti l'elemento determinante è stata l'elezione nel 1992 del Presidente Clinton, il quale iniziò nel 1994, come sempre accade nella vita politica americana, a preparare la sua rielezione tenendo conto soprattutto delle opinioni, delle ambizioni, delle aspirazioni di una parte dell'opinione pubblica e di alcune fra le maggiori lobby americane, nazionali e nazional-religiose, quali la lobby polacca, ucraina, lituana, croata, che sono state determinanti nella vita politica americana.
Qualcosa di simile accadde fra il 1992 e il 1993 in Occidente dove alcuni Paesi cominciarono a prendere in considerazione il rapporto privilegiato che avrebbero avuto con gli Stati successori dei vecchi Stati unitari. È il caso della Germania, che a un certo punto ha puntato sui rapporti privilegiati con la Croazia e la Slovenia. Gli altri paesi europei sono stati in qualche modo costretti a seguirla. È il caso anche della Santa Sede, la quale si precipitò al riconoscimento della Croazia e della Slovenia alla fine del 1991 senza rendersi conto che in quel modo stava lanciando un messaggio estremamente pericoloso al mondo. Temo che la Santa Sede non si sia resa conto che, riconoscendo la Croazia, lasciava intendere al mondo che uno Stato religiosamente omogeneo merita di essere riconosciuto in quanto tale. Era inevitabile che un messaggio di questo genere venisse recepito da altre entità territoriali e che ogni minoranza a quel punto si sentisse autorizzata a chiedere la propria libera determinazione.
Credo che ancora non si sia compreso che quando in Occidente si predica il rispetto dei diritti umani, in alcune parti del mondo si rischia di essere completamente fraintesi. Quando a Belgrado si professa il rispetto dei diritti umani, gli albanesi del Kosovo intendono e interpretano il messaggio come una licenza, un obiettivo incitamento a perseguire l'indipendenza ed è inevitabile a questo punto che a Belgrado ci si preoccupi, perché ogni Stato centrale aspira alla conservazione dell'integrità territoriale. Naturalmente ciò è avvenuto in alcune circostanze e non in altre. Nel caso della Cecenia ci si è limitati semplicemente a qualche deplorazione verbale, in quanto si è compreso che sarebbe stato inutile e controproducente spingersi oltre.
Forse l'aspetto più interessante è quello riguardante la crisi dello Stato sovietico in quanto tale, indipendentemente dalla nostra posizione. L'Occidente deve riconoscere a Boris Eltzin il grande merito di avere gestito lo Stato russo nella fase immediatamente successiva alla disintegrazione dello Stato sovietico con grande pragmatismo e con grande buon senso; è a lui che dobbiamo essere grati se sono state evitate alcune guerre che sarebbero potute scoppiare e se, ad esempio, la secessione dei Paesi Baltici è avvenuta in modo relativamente indolore.
Purtroppo Eltzin non ha evitato la guerra cecena, anzi per certi aspetti può esserne considerato anche responsabile. Mi chiedo tuttavia quale presidente russo avrebbe potuto evitare di entrare in guerra con la Cecenia, vale a dire con una Repubblica che aveva acquistato ormai caratteri criminali, che utilizzava sempre di più il proprio territorio come casella postale per traffici più o meno loschi, riciclaggio di denaro, acquisto di armi. La presenza cecena all'interno dello Stato russo costituiva ormai una minaccia che nessun presidente russo avrebbe potuto tollerare.
Credo che Putin abbia fatto esattamente ciò che i suoi connazionali gli chiedevano di fare e che l'abbia fatto, per il momento, nel migliore dei modi possibili, e insisto sulla parola "possibili". Certo la guerra cecena è una guerra sporca. Ma mi è capitato qualche volta di osservare che quando i russi conquistarono Berlino certamente non combatterono una guerra pulita e non so se ci fosse molta differenza fra essere donna a Berlino nel maggio del 1945 ed esserlo a Grozny in Cecenia nelle scorse settimane.
Oggi tuttavia abbiamo l'impressione che le forze in campo non combattano altro che per se stesse e per l'integrità del loro Stato e credo che di questo ci si debba rendere conto.
La disintegrazione degli Stati ha comportato, comunque, una serie di conseguenze che rientrano direttamente nella sfera di competenza dell'Occidente. La disintegrazione di uno Stato produce inevitabilmente guerra civile, repressione, guerre di bande che devono essere armate e quindi determina la creazione di una serie di traffici che tendono ad alimentarsi con le risorse naturali o geo-politiche e geo-economiche di quella regione.
Le risorse naturali possono essere, in alcune circostanze, la droga, anche se questo non è il caso della penisola balcanica; le risorse geo-economiche sono semplicemente il mare e la costa. L'Albania, ad esempio, ha una straordinaria risorsa geo-economica, è cioè un Paese ideale per il contrabbando di armi, tabacco, droga e esseri umani.
Qualcosa del genere è accaduto per il Montenegro e continuerà ad accadere anche per il Kosovo dove l'esercito di liberazione kosovaro si è alimentato con traffici più o meno leciti. Del resto si è verificato per certi aspetti quello che era già accaduto in Kurdistan e in altre zone afflitte da guerre civili e di secessione.
È inevitabile, poi, che nel momento in cui lo Stato si disintegra ogni funzionario diventa innanzitutto funzionario di se stesso e, quindi, ad esempio, le dogane nei Paesi balcanici sono gestite dai doganieri in modo personalistico. Probabilmente l'unica soluzione a questa situazione è semplicemente l'assunzione di una responsabilità internazionale nei confronti dei sistemi doganali della penisola balcanica. Un simile progetto è stato avanzato a Bruxelles e potrebbe affermarsi in un quadro di risanamento globale dell'economia dei Balcani. È necessario, comunque, sottrarre le dogane ai doganieri.
Oltre ad una inadeguata gestione delle economie locali, la guerra ha provocato anche un altro inevitabile fenomeno che è quello delle migrazioni. Il commercio di vite umane sull'Adriatico è indubbiamente il risultato della situazione che si è determinata. In realtà, si tratta di un problema gestibile perché ogni paese, se lo vuole, è in grado di chiudere le proprie frontiere. La difficoltà sorge nel momento in cui si affronta il problema dell'immigrazione secondo due criteri contraddittori. Da una parte si vorrebbe evitare o quantomeno limitare l'immigrazione ma, dall'altra, questa costituisce per molti paesi una necessità. Si pensi, ad esempio, a quanto è accaduto fra Stati Uniti e Messico nel corso degli ultimi venti anni. Gli Stati Uniti hanno realizzato sul Rio Grande una barriera che è di gran lunga più sofisticata di quanto non fosse il muro di Berlino. Tutte le migliori tecnologie sono state messe al servizio di un obiettivo strategico quale quello di impedire l'immigrazione clandestina dei messicani attraverso il Rio Grande. Molti vengono fermati, alcuni passano, ma forse molti di quelli che riescono a passare vengono successivamente accolti a braccia aperte in quanto nuovi potenziali consumatori. Ecco che quando una società affronta il problema dell'immigrazione con due criteri così profondamente contraddittori il problema diventa difficilmente gestibile.
Per molti aspetti qualcosa di analogo sta accadendo in Europa. Non credo sia vero che gli Europei abbiano nei confronti dell'immigrazione un atteggiamento di totale rifiuto. Anche quei settori della pubblica opinione che considerano l'immigrazione con maggiore inquietudine sono in realtà costituiti da soggetti che nella propria vita quotidiana sono tributari dell'immigrazione per mille ragioni. Chi rifarebbe i nostri letti il giorno in cui le filippine se ne andassero, chi si occuperebbe dei nostri anziani e dei nostri ospedali il giorno in cui i paramedici latino-americani lasciassero gli ospedali di Milano, chi si occuperebbe delle mucche nel bresciano se non avessimo gli indiani i quali hanno notoriamente con le mucche un tatto particolare?
Questo è il grosso problema nel quale ci troviamo. Non credo sia vero che l'immigrazione non è un problema gestibile. Lo è. Diventa difficilmente gestibile nel momento in cui una società lo affronta con criteri diversi. Se a questo poi si aggiunge anche l'atteggiamento lassista e permissivo di una parte delle nostre società occidentali - penso in particolare all'Italia ma lo stesso potrebbe dirsi della Francia e della Germania - il fenomeno diventa naturalmente più difficilmente controllabile.
Vorrei tornare per un istante alla Russia perché suppongo che quello sia un tema che continuerà a interessarci per molto tempo. Si è parlato molto di criminalità russa nel corso di questi anni ed il fenomeno delle mafie russe è stato studiato come uno dei più minacciosi della fine del diciannovesimo secolo e degli inizi del ventesimo.
Sono convinto che questo fenomeno debba essere indubbiamente studiato con grande attenzione, ma credo che non debba essere sopravvalutato o quanto meno non debba essere considerato un dato permanente della realtà russa. Si tratta infatti di fenomeno che ha origini storiche. Non è possibile capire ciò che sta accadendo in Russia oggi se non ricordiamo che l'Unione Sovietica aveva annullato, cancellato il diritto di proprietà; il cittadino proprietario aveva smesso di esistere. Questo dato caratteristico delle società occidentali in Unione Sovietica non esisteva più. Sotto questo aspetto l'Unione Sovietica è stata molto più totalitaria di quanto non sia stata la Germania nazista, per la semplice ragione che la Germania nazista lasciò in vita il diritto di proprietà e con questo tutto quel corpo di leggi, di consuetudini e di norme che hanno accompagnato il diritto di proprietà nel corso della sua storia. L'Unione Sovietica aveva cancellato il diritto di proprietà e schiacciato l'individuo, privandolo di uno dei suoi fondamentali fattori di identità.
Quello che sta accadendo oggi in Russia è la ricostruzione paziente e laboriosa di un cittadino proprietario. Un simile obiettivo non si realizza in meno di una generazione e, soprattutto, non può non produrre lungo la strada dei risultati deformanti come per l'appunto la creazione di poteri economici e finanziari anomali, i cosiddetti oligarchi, e l'utilizzazione di spazi non regolamentati. Attualmente, quel che accade in Russia è infatti semplicemente che la legge non copre determinate aree economiche che quindi possono essere più facilmente utilizzate dalla criminalità. Attenzione quindi al fenomeno delle mafie russe, ma senza considerarlo un fenomeno permanente, duraturo o, per così dire, caratteriale, quasi che i russi non potessero che essere fatti in tal modo.
Forse una nota meno negativa, in via di conclusione, fra le molte conseguenze della fine della Guerra Fredda, è rappresentata dallo straordinario processo di accelerazione dell'integrazione europea. Non bisogna infatti dimenticare che l'unione economica e monetaria, il mercato unico e l'euro si sono potuti realizzare grazie alla fine della Guerra Fredda, perché nel 1990, quando il Cancelliere Kohl unificò la Germania, nessuno voleva l'unificazione tedesca in Europa. Non la voleva la signora Thachter, non la voleva Giulio Andreotti, non la voleva François Mitterand. Erano tutti preoccupati non tanto dalla rinascita di una Germania hitleriana, quanto dalla creazione di un paese forte di ottanta milioni di abitanti che avrebbe squilibrato i rapporti di forza all'interno della Comunità Europea. Kohl capì queste preoccupazioni e fece l'unico gesto che in quella circostanza poteva essere considerato tranquillizzante, ossia sacrificò all'Europa la sovranità monetaria tedesca.
Il sacrificio del marco e la nascita dell'euro sono per l'appunto il risultato di quel delicato passaggio, avvenuto fra il 1989 e il 1990, durante il quale la Germania si unificò, in un contesto in cui le inquietudini e le preoccupazioni degli altri Paesi erano visibili e tangibili. Il risultato è stata una brusca accelerazione verso l'integrazione economica. Esistono oggi una unione economica e monetaria, un mercato unico e, grazie al Trattato di Schengen, una frontiera unica. Sono stati compiuti progressi che nessuno avrebbe immaginato nel corso dei decenni precedenti. Si è giunti infinitamente più vicini alla realizzazione dell'unità di quanto non si fosse mai stati e, per certi aspetti, sono state persino superate alcune delle caratteristiche degli Stati Federali tradizionali. Non dimentichiamo che l'America ebbe una moneta unica soltanto nel 1913. È vero che tutti gli Stati americani nel 1913 utilizzavano già il dollaro, ma a questo erano attribuiti valori diversi a seconda dell'affidabilità degli Stati e della banca di emissione. Soltanto con la nascita della Federal Reserve nel 1913, a quasi dieci anni di distanza dalla nascita della Federazione Americana, l'America ebbe una moneta unica.
L'Europa l'ha realizzata, sebbene i progressi in questo settore hanno messo in evidenza il deficit di unità politica.
Infatti, quanto più si è andati avanti sulla strada dell'integrazione economica e monetaria, tanto più ci si è accorti che l'obiettivo dell'integrazione politica veniva imperfettamente perseguito ed è questo il problema maggiore di fronte al quale ci si trova in questi mesi, in questi anni. È difficilmente immaginabile che l'Europa possa avere una moneta unica, un mercato unico, una frontiera unica ma che non si doti delle istituzioni politiche capaci di governare questi fattori. Moneta, frontiera e mercato chiedono un governo europeo e la creazione di questo governo europeo oggi è diventata visibilmente imprescindibile.
Un'altra situazione sulla quale ci si sarebbe potuto aspettare un mutamento alla fine della guerra fredda è quella riguardante la NATO. Sembra infatti ormai ingiustificata l'esistenza di un'organizzazione nella quale si è in presenza di uno Stato maggiore integrato. Nel 1992 si è presentata ai paesi europei l'occasione per riequilibrare i rapporti di forza con gli Stati Uniti in quest'ambito, ma ciò non è accaduto. Innanzitutto perché l'operazione in Bosnia è fallita. In secondo luogo, perché l'opinione politica prevalente negli Stati Uniti sostiene con forza l'utilità della NATO come strumento ideale per evitare che l'integrazione economico-monetaria dell'Unione Europea si trasformi in una unione politico-militare. Quindi, a mio avviso, la NATO costituisce attualmente lo strumento con il quale gli USA conservano gli equilibri politici e militari creatisi in Europa alla fine della seconda guerra mondiale.
La NATO potrebbe svolgere, invece, il ruolo di un'organizzazione per la cooperazione e la sicurezza, ma se questa vuole essere la scelta dei paesi europei, la NATO non può continuare ad essere il club dei paesi vincitori della terza guerra mondiale, ovvero della guerra fredda, ma dovrà, assolutamente e rapidamente, aprirsi agli altri paesi europei e, in particolare, alla Russia.
Per quanto riguarda il fondamentalismo islamico avrei tendenza a fare le stesse considerazioni che ho fatto per le mafie russe. Si tratta, naturalmente, di fenomeni completamente diversi, ma credo che commetteremmo un errore se pensassimo che il fondamentalismo è una realtà ineliminabile del mondo musulmano e che con esso ci dovremmo confrontare in via permanente. Il fondamentalismo religioso esiste in tutte le religioni e, in particolare, in tutte le grandi religioni monoteiste. Esiste un fondamentalismo cristiano, esiste certamente un fondamentalismo ebraico. Il fondamentalismo musulmano è in gran parte il risultato del fallito processo di modernizzazione di alcuni Paesi islamici, quali l'Iran, l'Algeria, il Libano. Quando un Paese si colloca sulla strada della modernizzazione ma non raggiunge lo scopo producendo, anzi, ricadute negative, è probabile che all'interno di quella società si sviluppi un'onda di ritorno, per così dire, alle origini e alle tradizioni, a ciò che rappresenta pur sempre un punto
fermo a cui ancorarsi. Non è un caso che il fenomeno fondamentalista ha avuto origine nel 1979 in Iran con il fallimento della modernizzazione dello Scià e all'interno del Medio Oriente in relazione alla questione araboisraeliana. Il fondamentalismo è indubbiamente un pericolo ma non è un pericolo destinato a durare indefinitamente; avrei persino tendenza a pensare che, per certi aspetti, si trovi in fase declinante e ciò che è accaduto in Algeria e in Iran nel corso degli ultimi mesi contiene quanto meno una speranza che ciò corrisponda al vero.
L'Italia è riuscita ad entrare nella moneta unica e questo rappresenta indubbiamente un grande successo nazionale.
Credo che la strategia di Bossi fondata su un'ipotesi di fallimento dell'adesione all'Euro fosse sostanzialmente realistica. Se l'Italia non fosse entrata nella moneta unica, il Nord dell'Italia ne avrebbe attribuito la colpa al meridione. A mio avviso, è stato l'ingresso dell'Italia nell'Euro che ha garantito la preservazione dell'integrità dello Stato. Tuttavia, l'ingresso nell'Euro e l'adesione al trattato di Schengen hanno reso l'Italia parte integrante di un sistema in cui si combatte ad armi pari e con le stesse regole. Si è infranta cioè quella sorta di campana di vetro entro la quale l'Italia aveva potuto coltivare per lungo tempo le proprie anomalie, i propri poteri forti, le proprie corporazioni, al riparo dal vento freddo della concorrenza europea. Tutto ciò è scomparso e l'Italia è attualmente esposta a rischi di destabilizzazione economica e sociale maggiori di quelli subiti in passato. Per certi aspetti l'Italia si trova all'interno dell'Europa in una posizione più difficoltosa rispetto agli altri partner. Tutti gli Stati membri dell'Unione Europea hanno infatti bisogno di un'Europa unita politicamente, che completi l'Europa economica, ma l'Italia, rispetto agli altri Paesi, ha anche necessità di riformare il proprio sistema politico per metterlo in sintonia con quello europeo. Stiamo quindi assistendo ad un passaggio difficile per tutta l'Europa unita e, all'interno di questa, ad una fase particolarmente delicata per l'Italia.
D'altro canto, non è possibile mettere in dubbio l'importanza della partecipazione economica e politica di un paese ad un più ampio contesto internazionale, in un momento storico in cui tanto si parla, sotto il profilo economico, di mondializzazione e globalizzazione. A quest'ultimo riguardo, mi preme precisare che la globalizzazione non è il risultato della conclusione della guerra fredda. La mondializzazione dell'economia è il risultato di un processo molto più lungo che parte da lontano, dal momento in cui il Giappone entra nell'economia mondiale. Già negli anni settanta l'Asia è diventata un giocatore mondiale sul piano economico. Nel 1978 la Cina avviò una serie di grandi riforme che nel 1980 iniziarono a produrre i primi risultati. La Cina cresce negli anni ottanta del 10-12%. L'India negli anni novanta del 6%, mentre il Brasile può certamente essere considerato una potenza economica virtuale su scala mondiale.
Quello della globalizzazione è quindi un fenomeno di cui si è consapevoli già da molto tempo, al quale tuttavia la guerra fredda in un certo senso ha dato un crisma di ufficialità. Con la fine delle grandi economie stataliste e dirigiste il mondo intero è passato al libero mercato producendo quella che potremmo definire una nuova "ideologia": la globalizzazione che, come tutte le ideologie, presenta vantaggi e aspetti negativi. Infatti un imprenditore che sa di avere, almeno virtualmente, il mondo a portata di mano si sente in qualche modo sollecitato a rinnovarsi organizzandosi secondo nuovi obiettivi. In realtà questa situazione a volte può comportare qualche inconveniente, specie se si parte dal presupposto dogmatico che gli Stati non hanno più il diritto di intervenire nel mercato e che non esistono più regole da rispettare. Attenzione quindi a fare della mondializzazione una ideologia, anche perché, come sta accadendo, l'ideologia produce sempre una "controideologia". Una grande parte della sinistra europea ed americana ha perduto la sua agenda originaria, la sua piattaforma e non può più continuare a sostenere le idee di dieci o quindici anni fa in quanto quel mondo è completamente finito. I punti di riferimento della sinistra, prima l'Unione Sovietica, poi la Cina, poi ancora il Vietnam, il Nicaragua e Cuba sono tutti falliti. Proprio in questa nuova teoria della globalizzazione la nuova sinistra ha in qualche modo trovato l'avversario che stava cercando. Nelle proteste di piazza, possiamo trovare i figli e i nipoti di coloro che si trovavano sulle barricate parigine del 1968 o nelle agitazioni studentesche di quegli stessi anni in Italia. Questa folla di manifestanti è, come sempre, una folla composita, eterogenea. Hanno tutti un nemico comune: la globalizzazione, la mondializzazione, ma non è detto che condividano lo stesso obiettivo. Ad un esame più attento si può constatare, da una parte, la presenza di una vecchia sinistra massimalista, radicale o addirittura in alcuni casi anarchico-libertaria, dall'altra gruppi rappresentativi di quei ceti sociali dell'occidente che vedono nella mondializzazione dell'economia un rischio per il proprio stato sociale.
Ciò che, a mio avviso, deve essere chiaro è che la mondializzazione non avverrà mai in modo totale e radicale ma sicuramente avrà luogo. È una strada che non possiamo non percorrere. Se vogliamo vendere alla Cina dobbiamo permettere alla Cina di arricchirsi. Naturalmente questa strada comporta la caduta di tutta una serie di protezioni che hanno consentito finora all'occidente non solo di proteggere talune categorie sociali, ma anche di ridistribuire i redditi nazionali secondo i criteri dello Stato assistenziale e del welfare State. È inevitabile in questa circostanza che vi siano oggi in piazza, a Seattle come a Washington, alcune categorie sociali che protestano per ragioni alquanto diverse da quelle radicali e rivoluzionarie che animavano le contestazioni del 1968. In altre parole, possono vedersi fra coloro che protestano molti sindacalisti e oggi i sindacalisti sono una categoria conservatrice, non rivoluzionaria. Soprattutto, è possibile osservare una straordinaria insensibilità a quei problemi del Terzo Mondo cui la sinistra ha sempre dichiarato di essere sensibile. Ciò accade perché credo non ci si renda conto del fatto che il Terzo Mondo non può crescere che avendo la possibilità di lavorare ed esportare. So che uno degli argomenti di protesta contro il FMI e lo sfruttamento capitalistico del Terzo mondo è il lavoro minorile nei paesi in via di sviluppo in quanto viene considerato una violazione dei diritti umani e un'oppressione dell'infanzia. Questo orientamento non tiene conto del fatto che in questi paesi per i giovani e gli adolescenti la scelta non è tra la famiglia e la fabbrica, ma tra la fabbrica e la strada, la prostituzione, la criminalità. Questo atteggiamento conservatore sta impedendo di fatto al Terzo Mondo di sviluppare tutte le proprie capacità. Tuttavia non credo che queste proteste non saranno in grado di produrre alcun effetto politico, in quanto se i vertici di Seattle o Washington sono falliti lo si deve al fatto che all'interno del "palazzo" i rappresentanti degli Stati non sono stati capaci di raggiungere un accordo, in quanto nell'ambito della comunità internazionale esistono atteggiamenti e settori più o meno conservatori che temono di perdere determinati equilibri. Credo che comunque il mondo andrà avanti a dispetto di coloro che lo vorrebbero fermare.

(*) Testo tratto dalla conferenza tenuta il 17 aprile 2000 presso il SISDe.